OBSCURUM PER OBSCURIUS

OBSCURUM PER OBSCURIUS

OBSCURUM PER OBSCURIUS

Riverberi da Scavando nell’Ombra di Claudio Marucchi
di M.M. Judas
Pubblicato sul blog il 19/10/2023

«…a chi ha ancora orecchie per l’inaudito,
a questi voglio opprimere il cuore con la mia felicità».
Friedrich W. Nietzsche – Così parlò Zarathustra

Scavando nell’ombra di Claudio Marucchi è un libro che contiene scomode verità, narrate indossando guanti di velluto. Alcune parti potranno risultare inaccettabili per tutti coloro che – per paura di quello che c’è “là fuori” – preferiscono che la loro vita, e sempre per la loro sicurezza possibilmente anche quella degli altri, debba essere governata da regole prestabilite, piuttosto che alzarsi ogni mattina nella consapevolezza che, in quanto ancora viventi, non possiamo fare altro che subire l’ignoto. Nasciamo nudi. In dotazione alcun guscio, niente artigli o zanne, nessuna pelliccia a proteggerci dal freddo. È inevitabile cadere e farsi male, è ineludibile che prima o poi qualcosa o qualcuno ci spezzerà il cuore, così come è certo che moriremo. Nessuna regola ci proteggerà da tutto questo.

«La nostra vera forza viene dal contatto con l’ombra, non dall’evitarla. Continuando a iper-proteggersi da ogni contatto con il “male”, si rischia di uscire sbriciolati dal primo contatto con il dolore, la tragedia, l’oscurità del mondo».

Potrà essere intollerabile per qualcuno questo scritto, a meno che non acconsenta ad arrivare fino in fondo, e resistere fino all’epilogo. Soltanto arrivando alla conclusione il lettore avrà il quadro completo, perché è un quadro che va osservato da lontano. Colorato con oro e sangue e illuminato da raggi di luna. Narra una storia che tutti abbiamo già sentito e di cui un po’ tutti ci sentiamo discendenti. È la storia infinita di un giardino, di una mela, di un serpente e di una scelta. La scelta. A distanza di millenni la faccenda è ancora aperta. Obbedire per sopravvivere o trasgredire per vivere. Per proteggere un’ordinaria stabilità, che nulla ha a che vedere con l’equilibrio, stiamo regredendo. Il regno del conformismo ha le porte spalancate, e molti vi sono già entrati. Una volta lì dentro, nulla potrà più sorprenderci, perché ogni sorpresa abita nella diversità.

Non è lo scopo dell’essere umano quello di sposarsi, fare figli, trovare un buon impiego e accendere un mutuo. Questo significa solo restare in vita. L’autentico e nobile scopo dell’uomo è uno e uno solo: crescere, conoscersi e conoscere. L’unico modo per crescere è cadere, sporcarsi e poi rialzarsi. Il solo modo per conoscere è lasciarsi qualcosa alle spalle e andare oltre.

Ancora ritengo necessario ribadirlo: queste pagine possono risuonare spaventose, perché inizialmente vengono scardinate apparenti conquiste, tutte riguardanti la sicurezza e la garanzia di un mondo educato e ordinato. Ma verso la fine, l’autore compie una vera e propria magia, come un illusionista che di colpo solleva il velo e la colomba non c’è più. Perché non c’è alcuna sicurezza in un’illusoria educazione, è solo il prodotto di istinti soppressi e inclinazioni narcotizzate. Al contrario, è come un leone che dorme legato da un filo di seta. Prima o poi inevitabilmente si sveglierà. E il filo non reggerà. Non c’è alcuna garanzia che in una natura entropica l’ordine possa durare. La continua trasformazione di ogni cosa è l’evoluzione innata di ogni legge, quelle vere, della natura, che non hanno nulla a che vedere con le leggi mortali emanate da piccoli uomini spaventati.

Finalmente leggeremo qualcosa di pericoloso e innocente, come può esserlo un fanciullo, senza confini e senza vergogna, e va ingoiato così com’è, a costo di strozzarcisi, e certamente qualcuno si strozzerà. Soffocheranno coloro che hanno una visione così distorta del mondo, da pensare che giusto e sbagliato siano così ben definiti da non lasciare spazio alle scelte. Quei confini non sono mai netti, non possono esserlo.

«Le immagini sono sentieri. Possono condurci altrove. In profondità abissali o ad altezze siderali. Per riuscire a modificare la psiche devono risultare perturbanti».

Questo libro lo è, immensamente e meravigliosamente perturbante. Un grande strumento a disposizione, quando la strada è opportunamente smarrita, per poter sostare nello smarrimento riconoscendolo come tale, senza per questo volerlo per forza allontanare. A certe profondità la razionalità va a farsi un giro, poiché non le è consentito l’accesso, e diventa necessario sostare lì, imperturbabili e con gli occhi pieni di curiosità. È indispensabile quando navighiamo negli scarti, nell’evacuazione dei nostri tormenti, rendersi immuni a quel potente veleno che prende il nome di angoscia.

Verremo catapultati in pagine dove tutti noi veniamo raccontati a noi stessi, verranno toccati realmente i meandri più oscuri della mente umana, luoghi inesplorati che tutti possediamo e che teniamo ben nascosti, territori davvero spaventosi che ci appartengono, e tutto questo viene esposto così lucidamente, da far calare uno strano silenzio mentre leggiamo. Uno di quei silenzi che trasforma il ronzio di una mosca in un’interruzione assordante. La conoscenza così chiara di queste dinamiche, da parte dell’autore, implica necessariamente una profonda esperienza diretta, come di qualcuno che ha imparato a entrare e ad uscire da quei luoghi a suo piacimento, padroneggiandoli come se possedesse l’esperienza non di una, ma di diverse vite.

Tutto questo non può essere altro che il frutto di un viaggio coraggiosamente solitario, ma non è la solitudine di un triste cane randagio abbandonato, bensì quel tipo di solitudine sublimata all’interno della quale diventa possibile sostare, contemplare, ascoltare, riposare e divenire. Il cane randagio di cui sopra resta tale, e senza cambiare la sua condizione acquista la dignità e la nobiltà di non essere addomesticato. La libertà è una condizione che non dipende da alcun fattore esterno. È libertà di essere, dentro. Libertà di scegliere di essere, dentro, senza che alcuna influenza esterna possa metterci becco. Necessita di una certa dose di egoismo per potersi esprimere e probabilmente è più praticabile in un mondo distopico che utopico. È nell’utopia, in fondo, che regna sovrana l’illusione della giustizia. Questo non significa che per essere liberi è necessario calpestare “gli altri”, a meno che “l’altro” non stia calpestando le mie scelte. Allora le cose cambiano. Dove sono dunque i limiti della libertà? Diventano limiti mobili, che avanzano o indietreggiano, che si espandono e si restringono, e si adeguano agli spazi che riusciamo a conquistare.

«Il mondo con il suo grave fardello di dolori e piaceri non è un enigma da risolvere».

Ognuno di noi è un enigma da risolvere e quando non riusciamo, quando non sappiamo nemmeno da dove cominciare, ecco che proiettiamo sul mondo l’arduo compito, pensando, anzi no, illudendoci che sistemando le cose “là fuori”, automaticamente si sistemino anche “dentro”. Questo è l’eterno inganno del nostro ego. Incolpare quello che di irrisolvibile c’è fuori, per non prenderci la responsabilità – che parola potente – di diventare i governatori, non di un mondo, ma di un universo infinito, ovvero la parte sommersa di ognuno di noi, che il mondo non conoscerà mai.

A seguito di un’edulcorata conformità, ci siamo perduti. Nel paese in cui viviamo, così come nell’occidente tutto, la presunta protezione del debole viene utilizzata al fine di rendere tutti deboli. Ed è esattamente quello che succede nel momento in cui, a discapito della meravigliosa unicità, ci si conforma in un unico pensiero, con l’aggravante che non è nemmeno un pensiero nostro. È il pensiero comune, astratto, non si sa bene chi l’abbia partorito, però suona bene, incanta, trasmette un senso di giustizia e uguaglianza. Qui non vengono proposte soluzioni, non servono, è infinitamente più importante prendere atto, rendersi coscienti di questa nostra tragica condizione, di fatto non servirebbe altro. La presa di coscienza sarebbe più che sufficiente affinché il castello di carta crolli su sé stesso. L’incognita è cosa succederebbe dopo. L’essere diversi è sempre stato un lusso pagato a caro prezzo, di solito con un forzato isolamento, ma il rischio attuale, nell’essere diversi, rischia di precipitare nell’illegalità, di risultare non stravagante, non bizzarro o eccentrico, ma pericolosamente illecito.

In sostituzione a un’illusoria soluzione, vengono offerti spunti di riflessione, diamanti grezzi da levigare, angoli da smussare, con la pazienza, con il tempo, con l’impegno e con la maestosa ambizione di riuscire a scostare un velo, per vedere oltre.

«Dobbiamo sempre ammettere di non conoscerci se non superficialmente. Ammettere l’inconcludenza delle nostre auto-percezioni. Di essere profondamente illusi riguardo le sensazioni su di sé. Nessuno di noi si conosce davvero. Ciascuno crede di conoscersi in base ai moti superficiali della psiche».

E questa consapevolezza è la mano che scosta il velo. Al di là delle certezze, riposano profonde verità, reperibili da ognuno di noi, a condizione di rinunciare a una certa dose di sicurezza e di sprofondare nelle caotiche profondità di noi stessi. È così affascinante il Caos, così elegante nel suo incedere con gli occhi bendati dalla fascia di un’autentica equità, dal momento che non guarda in faccia nessuno. Per contro, la perfezione è volgare, nel suo inutile e noioso sostare immobile, con il solo scopo di farsi ammirare. Il Caos diventa evoluzione e la perfezione è ridotta a stagnazione. Tutto ciò che resta immobile, per natura, è destinato a marcire, e allora fine della perfezione. Ed è del tutto inutile soffermarsi ad indagare se questo sia giusto o sbagliato, perché giusto e sbagliato sono due concetti che la natura non concepisce. Il dislivello prodotto dal caos diventa così, se lo vogliamo, un’occasione, uno scivolo o una rampa di lancio, un modo per guardare le cose da diverse prospettive. E in alcuni casi, se vi inciampiamo, semplicemente un modo per morire. La morte, capita. È un’eventualità come un’altra. Lo sappiamo fin dalla nascita e non la accettiamo fino alla morte. Perché, come sempre, riteniamo che ci sia un modo giusto di morire (la vecchiaia) e un modo sbagliato (inciampando in un dislivello, che si può trasformare in qualunque altra cosa, da una malattia a un incidente). Non è la morte ad essere crudele. La vita lo è. Ed è questa crudeltà a renderla così accattivante, è l’assenza di pietà che ci obbliga a crescere. E diventeremo “grandi” quando comprenderemo che la sofferenza non può essere l’alibi per una futura ricompensa, a volte è semplicemente fine a se stessa. Altre volte, è il carburante di un mutamento. La pietà rivolta al disabile è un’offesa al disabile. La sofferenza derivante dal suo stato, lo eleva ad “anima buona”, come se avesse già espiato i suoi peccati attraverso le sue afflizioni. Di fatto un disabile può anche essere una grandissima carogna, come chiunque altro.

Le inclinazioni umane tendono per natura verso il basso, e noi attraversiamo questa vita alla ricerca di un paio di ali che ci elevino in alto. Forse è questo l’inferno. La continua ed estenuante battaglia tra noi e il profondo di noi, per sovvertire una condizione naturale, prevalentemente disfattista.

Se oggi ci accadesse una cosa bella e una cosa brutta, di pari peso e misura, questa sera rimugineremmo sulla cosa brutta. La cosa bella resterebbe offuscata e passerebbe in secondo piano. L’evento sgradevole è infinitamente più potente, come una macchia su una camicia bianca. La camicia bianca sparirà e vedrai solo la fastidiosa macchia. Il bene, il bello, la bontà, sono traguardi da conquistare con una certa dose di sforzo. Il male, il brutto, la cattiveria, sono straordinariamente spontanei, non richiedono alcuno sforzo, al contrario, dobbiamo costringerci per tenerli a bada. Li puoi celare, velare, camuffare, ma li sentirai sempre spingere dal sottosuolo per emergere. Per la sopravvivenza della razza umana, è opportuno che ci preoccupiamo di domare, nel limite del possibile, ogni istinto violento che passa per la testa, ma sarebbe anche vantaggioso riconoscere a noi stessi il fatto che lo stiamo facendo, sarebbe utile ammettere a noi stessi lo sforzo che stiamo compiendo. È così faticoso “fare i bravi”, un impegno costante, gravoso. Almeno la metà di questa fatica ci abbandonerebbe se potessimo strappare via le maschere, almeno quando siamo soli, fino a sorridere e poi ridere di questo bizzarro stato umano. Davanti agli ormai infiniti video di violenze che circolano dai tg ai social, è faticoso, difficile, quasi impossibile soffermarsi ad ascoltarsi nel profondo. Tolti l’orrore e la sorpresa, sarebbe auspicabile cogliere quei movimenti profondi, ovattati, veloci, fulminei. La velocità è data dal fatto che la nostra mente conscia li respinge giù quando sono ancora al pelo, quando hanno appena sfiorato la superficie. Ci vuole moltissimo coraggio per accettare la vergogna rispetto a quello che, insieme al disgusto e all’orrore, si sta provando. L’imbarazzato turbamento derivante da quel morboso desiderio di guardare ancora, di guardare oltre, di allargare l’immagine per coglierne i dettagli. Quanti bambini vorrebbero aprire un gatto per guardarci dentro? Il bambino, innocente ma non innocuo. Con gli stessi occhi dovremmo guardarci: siamo innocenti, perché non abbiamo scelto di essere così. Ma non siamo per nulla innocui.

Nel procedere dell’umanità, vita dopo vita, secolo dopo secolo, forse con la lentissima presa di coscienza da parte dell’uomo, di avere una coscienza, si è cominciata a valutare la possibilità, seppur con quel freno a mano tirato che prende il nome di “religione” – e da qui l’estenuante lentezza – che l’atto sessuale, ovvero quella pulsione naturale che si estende a ogni forma di vita e ne preserva la continuazione, potesse anche diventare dapprima ricreativo, e per finire creativo, non più solo a livello fisico ma a livello emozionale e immaginale. All’interno di questo capolavoro, il sesso e tutte le sue implicazioni vengono sviscerate prendendo in causa ogni sfaccettatura e mettendo l’accento su un dettaglio estremamente importante: cosa ti può dare e cosa ti può togliere. Maneggiare il piacere sessuale è una questione delicata, dal momento che è il derivato di ataviche battaglie basate sul dominio e sulla sottomissione, sulla conquista e sul fallimento, e la violenza – e come conseguenza il dolore – ne è una frazione fondamentale. Viste tutte queste implicazioni, una mente semplice – o addormentata – si accontenta dell’effimero godimento di un orgasmo, ma una mente curiosa ne percepisce la forza creativa, che in quanto tale è sempre pericolosa. La creatività DEVE essere audace, perché sfonda porte e pareti dietro le quali nessuno sa cosa possa nascondersi. È rischioso oltrepassare certi confini, se non opportunamente corazzati, laddove l’unica corazza è una mente aperta e due braccia spalancate, ad accogliere qualunque forma di probabilità. E per ogni porta sfondata, per ogni muro abbattuto, di volta in volta, scoprire nuovi lati nascosti di noi, dai desideri sopiti alle inclinazioni inascoltate, e una volta scoperti i profondi segreti occultati nelle stanze buie, arrivare alla consapevolezza che il lavoro è appena cominciato. Cosa ne facciamo ora di questi rilevamenti? Come li gestiamo? Li lasciamo liberi di dare sfogo alle pulsioni? Forse se lo meritano, dopo quella lunga prigionia. Oppure, incapaci e sopraffatti da tanta temibile potenza, li ricacciamo nelle celle buie da cui sono usciti conficcando chiodi nelle porte? Magnifico l’estratto dell’Apocalisse quale esempio assoluto di come si governano certe potenze. Entrare e uscire, destare e poi sopire, alternare, liberare al momento debito. In questo modo il piacere e tutti i suoi derivati, incluso il dolore e finanche la violenza, trovano il loro posto, il loro momento e il loro luogo, un giardino del piacere protetto ma abbastanza ampio affinché le belve selvatiche, le vergini e i lupi, le incantatrici e i serpenti, liberi da ogni giogo, possano esprimere e superare sé stessi. Un autentico Gan Eden, ma senza l’ingombrante presenza di quell’opprimente Dio, che sembra non godere mai.

Ampi spazi vengono curiosamente dedicati alla psiche maschile (in pochissimi lo fanno, come non esistesse il contrappeso del femminino), e alle difficoltà connesse nel districarsi, oggi più che mai, nei meandri di una società dove essere maschi implica già una colpa, un debito, in quanto individui potenzialmente pericolosi. E poi è il femminino, in tutta la sua potenza, a manifestarsi nelle pagine. C’è un ché di incantevole nell’immagine della donna come ombra di sé stessa. Inafferrabile ma non inespugnabile, un paradosso che conferma la doppiezza, se non la molteplicità, del suo essere. Al di là dei veli e degli orpelli di cui si adorna, il mistero. Priva di identità in quanto portatrice di ogni identità, la sua danza tratteggia l’inventario di ogni universo possibile. Mentre lui dorme e sogna, lei danza e origina il sogno: il genere umano, un campo di grano, ciclicamente pronto da mietere. Come un sogno nel sogno, vengono utilizzate potenti immagini ancestrali a fare da sommergibile tra conscio e mondi sommersi. A volte è l’unico modo per sporgersi fino alle origini dell’inconoscibile, per sfiorarlo. Altre volte, come in questo caso, l’accento viene messo sull’importanza del velo in quanto custode di un’alterità che deve essere immaginata e intuita, prima di poter essere finalmente spogliata. Abbiamo dimenticato la fascinazione dell’incognita, del non sapere, e con essa abbiamo perduto la curiosità. Non è più necessario essere curiosi, perché è sufficiente accendere una web-cam per vedere tutto. La nostra abitazione, da remoto, cosa fanno il cane e il gatto mentre siamo al lavoro, oppure che tempo ci sarà in questo momento sulle Ande. Perfino i portentosi nidi delle aquile abbiamo violato. E se vuoi fare sesso protetto, una web-cam può sostituire il profilattico. Non c’è sesso più sicuro di quello. E non importa se rinunci agli odori, ai sapori, al calore di un respiro sul collo o a un desiderio sussurrato all’orecchio. Non importa se non puoi far scivolare le dita al di là dello schermo per slacciare quell’ultimo bottone. Non importa se non puoi mordere o strappare o afferrare e immobilizzare. Non importa se non puoi leccare. Niente preda da predare, solo la frettolosa brama da saziare, prima di spegnere il monitor e ripiombare in un’infinita solitudine. Il coinvolgimento dei corpi genera scoperte inaspettate, alle quali rinunciamo pagando il pegno di una sicurezza fraudolenta, perché ci deruba dell’esperienza di conoscere ciò che non siamo e di scoprire luoghi in cui non abitiamo.

Con queste premesse, la paura dell’altro in quanto diverso da noi si riduce a una logica conseguenza, dal momento che la sua natura rimane incomprensibile e inconquistabile. Inaccessibile. Quando si tira su un muro, quel muro poi va anche difeso. Siamo fortezze ambulanti bramose di attenzioni, ma alla minima invadenza innalziamo una coltre di diffidenza, invocando una privacy comica e grottesca.

Guardami, ma non scrutarmi. Sfiorami, ma non toccarmi. Toccami, ma non contaminarmi. Un elenco infinito di limiti a cui aderire. La curiosità, anticamera della creatività, diventa così una patologia attribuibile ai maniaci e agli squilibrati.

«Le energie vanno invece riconosciute. Prima subite poi gestite, modulate, controllate, dosate. Si tratta di liberarle, ma consapevolmente. Esserne temporaneamente preda. Farsi un po’ male ma in modo non irreparabile».

Non possiamo chiedere all’ombra il permesso di entrare. È necessario saltarvi dentro, all’improvviso e senza preavviso, spinti dalla smania di scoprire all’interno di essa, quella parte intrepida di noi che non riusciamo a individuare, mossi dalla necessità di andarla a cercare, come si insegue un’antica fiamma perduta, anche a costo di cadere e di farci male. L’altra metà della mela, l’anima gemella, non è all’esterno di noi. Nelle fiabe il cavaliere parte e affronta un grande viaggio pieno di insidie, per salvare la fanciulla rinchiusa nella torre. Usciti dallo specchio della fiaba, ovvero dal riflesso di una realtà rovesciata, nella vita vera il viaggio è in discesa, nel sottosuolo, all’inseguimento di quell’oscena, conturbante e trascurata Dea, che ci può completare.

Durante la lettura, nei crocevia e nelle tappe particolarmente complicate da reggere (e ce ne sono molte), non sei mai abbandonato a te stesso, quello semmai accadrà quando, arrivato alla fine, chiuderai il libro. Ma durante il viaggio, chi lo ha scritto è anche l’accompagnatore, non ti lascia solo. E nel tenere gli occhi coraggiosamente aperti davanti a faticose, fastidiose ma inconfutabili realtà, ti verrà voglia di dirgli: «Non lasciarmi la mano!» Mi consento uno spoiler: non te la lascerà, fino a quando le ultime avvolgenti righe, ti depositeranno delicatamente nell’esatto luogo in cui, nel voltare la prima pagina, avevi cominciato uno dei viaggi più pericolosi mai intrapresi dall’animo umano.

Le mie parole terminano qui, il contenuto di questo libro non è in alcun modo riassumibile o spiegabile, ma solo godibile e fruibile, in quanto distillato di un’esperienza immersiva, abissale e assoluta, un viaggio al centro della terra e ritorno da parte dell’autore. E in ogni pagina risplende il diamante che in quegli abissi ha rinvenuto e coraggiosamente ci ha donato.

M.M. Judas

 

 

 

 

Il libro SCAVANDO NELL’OMBRA di Claudio Marucchi è edito da Spazio Interiore nel 2023. Lo puoi acquistare QUI

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